La nostra amica Francesca Vitelli, ci presenta il suo nuovo romanzo: “La vita di lunedì”, un tuffo in una Napoli ricca di cultura, storia, arte, miti e leggende; lontana dall’immagine perpetuata dai mezzi di comunicazione di massa e proprio per questo in grado di affascinare il lettore consentendogli di riscoprire una delle città più affascinanti ed interessanti della nostra penisola.
di Francesca Vitelli
La Napoli semplificata dei mezzi di comunicazione
Napoli è diventata, nell’immaginario collettivo, quel che le serie televisive – e certa stampa e talune case editrici – mostrano: criminalità, camorra e panni stesi. Questa è, però, la versione commerciale che “vende” e fa cassetta e in essa, come molte altre persone, non mi riconosco.
La complessità e il fascino della Napoli che amo
Dal desiderio di far conoscere la cultura, la storia, l’arte, i miti, le leggende e il sincretismo di una città che dall’alba dei tempi tiene insieme tutto, senza censurare niente e nessuno, è nato “La vita di lunedì. Di sogni e altre quisquiglie” il romanzo uscito lo scorso dicembre.
“La vita di lunedì”, di cosa parla il romanzo
Volevo raccontare ai napoletani – e i non napoletani – il cambiamento intervenuto dal dopoguerra ad oggi nella mia città soffermandomi su aspetti poco conosciuti ai più. Per farlo mi sono ispirata a una storia vera, quella di un uomo quasi settantenne che riflette sulla propria vita.
La storia di Vincenzo protagonista del romanzo
Per oltre duecento pagine Vincenzo, il protagonista, dialoga con il sé stesso bambino, anch’egli protagonista, ricordando il passato e confrontandolo con il presente. Scrivere di un luogo di cui si legge e ascolta tutto e il contrario di tutto non è cosa facile. La storia personale si intreccia con il mutamento urbanistico, i cambiamenti socio-economici, lo scardinamento dei luoghi comuni, i miti e le leggende di una città che racchiude un mondo stratificato in cui, talvolta, il tanto diventa troppo. Vincenzo è persona reale costruitasi da sé che guarda al mondo con occhi curiosi e affamati di vita, Vincenzino è il bambino che è stato.
Un romanzo di formazione, appassionato, ironico e profondo
Un dialogo appassionato, ironico e profondo in cui si mette a nudo la vita di un uomo in un caleidoscopio di sentimenti, sensazioni e suggestioni. Un romanzo di formazione costruito con un canone letterario innovativo che conduce il lettore nella scoperta di luoghi e persone.
L’impegno maggiore è stato cambiare schema sintattico linguistico, i protagonisti costruiscono il pensiero e parlano in un modo diverso dal mio, ho adottato uno stile che fosse il loro e volendo rendere leggera e comprensibile la lettura ho inserito, alla fine del testo, un glossario con i vocaboli e le espressioni non immediatamente chiare.
Non solo testo
Il testo è corredato da immagini che mostrano il passare del tempo nei luoghi descritti in cui i personaggi vivono e – battibeccando – raccontano passioni, sogni, delusioni, paure, gioie, preoccupazioni e progetti. Il presepe, la sirena Partenope e Ulisse, la pastiera e la filosofia gastronomica che rimanda alla stratificazione storica della città, il culto dei morti e quello laico di San Gennaro, i primati economici, l’artigianato artistico storico ma anche i rapporti con i figli e con i nipoti, il riscatto sociale ed umano, il lavoro, gli hobbies.
Dal centro storico al quartiere elegante
Vincenzo, nato nel ventre del centro storico, si costruisce un futuro nel quartiere elegante mettendosi in gioco per seguire il suo sogno: un sogno in cui le donne sono state determinanti. Per lui, parrucchiere, le cose più importanti sono accadute di lunedì…
In giro per l’Italia per presentare il libro
Il viaggio con Vincenzo e Vincenzino mi sta portando in tutt’Italia per far conoscere un’identità e un’anima partenopea lontana e diversa da quella in onda sugli schermi, incontro studenti universitari illustrando come la letteratura possa essere strumento di marketing territoriale innovativo, dialogo con napoletani emigrati che ritrovano frammenti delle loro storie personali, rispondo alle domande di chi ancora non la conosce o vi è stato da turista e nulla sa della sua storia millenaria o delle figure mitiche e leggendarie che la popolano. Al mattino accendo il computer e aprendo la posta elettronica trovo messaggi di lettori e lettrici che condividono le emozioni, le suggestioni e le curiosità che in essi la lettura ha suscitato.
Una voce fuori dal coro
Sono consapevole di essere una voce fuori dal coro, lo sono sempre stata, ma la semplificazione necessaria a rendere massivo un concetto, un’idea, una visione, non fa per me. Prediligo l’analisi della complessità, l’approccio multidisciplinare, il ragionamento comparato, la conoscenza multisensoriale e contraddittoria. Quando bisogna conoscere e comprendere la riduzione all’unità non mi appartiene, sono partenopea figlia dei greci, dei romani, gli svevi, i normanni, gli angioini, i saraceni e gli spagnoli: preferisco l’eccesso di informazioni da cui distillare la mia opinione. Napoli è molto più di pizza, mandolino, panni stesi, criminalità e camorra. Io ho provato a raccontarne la mia, modesta, versione…
In questo periodo ci sentiamo più fragili: progetti, aspirazioni, certezze mostrano una preoccupante friabilità. Tutto quello che proviamo a programmare è circondato da una miriade di <se>, <forse> e <chissà>. Stanchezza e inquietudine ci accompagnano, insieme alla paura del contagio, alle preoccupazioni lavorative, a un senso di chiusura – a volte di soffocamento -, che ci stringe il cuore. In momenti così ci può aiutare rievocare eventi difficili, già affrontati in passato.
Dall'esperienza al racconto
Tali eventi sono appuntati come medaglie sul nostro petto, e queste a volte pesano, a volte hanno bisogno di essere lucidate, ma comunque ci rammentano che già altre volte siamo state/i in grado di farcela. Vedete…per farmi capire meglio ho utilizzato una metafora, una immagine evocativa – le medaglie -, che è l’inizio di una narrazione. Medaglia, dopo medaglia potrei – potremmo – rivisitare le occasioni nelle quali ci furono conferite, le difficili esperienze che nel passato ci misero alla prova, e che oggi infondono in noi la consapevolezza che, così come allora, anche stavolta ce la possiamo fare. Metafora, evocazione, narrazione, ovvero inventar storie, è quanto da sempre fanno gli essere umani per rendere possibile e passabile la vita sulla Terra. Insomma, nei momenti di difficoltà, personali o collettivi, le storie ci vengono in soccorso.
Aiutanti fantastici
Anche se qualcuno, con un eccesso di rude realismo, ci esorta: “E adesso, poche storie!” è proprio in quei frangenti che miti, fiabe e favole si rivelano aiuti formidabili.
Eroine ed eroi si schierano al nostro fianco: la luce simbolica delle loro imprese illumina il nostro tortuoso cammino. Lo studioso di religioni K. Kerényi definiva “mitologema” questo “materiale mitico che viene continuamente rivisitato, rimodellato e plasmato”* Per la poetessa Muriel Rukeyser: “L’universo è fatto di storie, non di atomi”. Noi non siamo solo spiegazioni, siamo anche evocazioni. Tutti e tutte siamo tante storie. Nei momenti di difficoltà possiamo ripercorrere le fasi della nostra esistenza, le prove della vita già superate e, inoltre, ispirarci alle imprese di eroine ed eroi. I loro mantelli sono grandi abbastanza per avvolgerci e darci forza.
A metà dello scorso anno ho pubblicato con la casa editrice Carthusia il cofanetto Eroine ed eroi in corso, dove si raccontano storie eroiche di bambini e bambine, volontari, disoccupati, insegnanti, genitori, operatori e persone con una qualche fragilità.
Storie vere, stimolate e raccolte da me nel corso di tanti anni di lavoro, in laboratori di arte terapia e attività di formazione. In particolare dal 2015 al 2019 all’Università Ca’ Foscari di Venezia, durante alcuni incontri con studenti e studentesse con disabilità e con i loro tutor.
Nel cofanetto c’è una Guida grazie alla quale è possibile seguire, passo dopo passo, le cinque classiche tappe del “percorso eroico”, attraverso esperienze, riflessioni, attività di laboratorio da leggere e riproporre in famiglia, a scuola e nel sociale. La Guida è impreziosita dall’Albo Che forza!: dodici personalità del passato, del presente e dell’immaginario, che raccontano la fragilità che li ha resi forti, con le meravigliose illustrazioni di Bimba Landmann.
Scrivere i testi della Guida e dell’Albo, mi ha aiutato a trasformare positivamente questo periodo. Raccontare le storie delle difficoltà affrontate da altri/e, mi ha fatto uscire da una chiusura verso il mondo, che sentivo insinuarsi in me. Uno spiraglio aperto attraverso il periodo del lockdown, il distanziamento sociale, il timore del contagio.
Gocce preziose colavano da quelle azioni eroiche e, piano piano, nutrivano le pianticelle della speranza.
I frutti di questo tempo
“La cultura, lo dice la parola, è coltivazione e s’avvale dei semi delle nostre esperienze, di tutte”**. Se è dalle esperienze che deriva la cultura, da quelle vissute durante la pandemia quale cultura può scaturire? Sicuramente in questo periodo i destini personali si sono riannodati con quelli collettivi, abbiamo compreso che la speranza individuale non può prescindere dalle speranze sociali. Concreto però è il rischio che la complessità della situazione porti a ripiegarci su noi stessi/e. Con l’aiuto delle storie, le nostre e quelle degli altri, possiamo trasformare il ripiegarci in un dispiegarsi. La pandemia ci ha fatto, e ci fa vivere, una situazione complicata, termine che deriva dal latino cum plico: con piegature. Il passaggio successivo è trasformarla da complicata a complessa, da cum plècto: intrecciato, tessuto insieme. Fino a divenire semplice, ovvero sine plico: senza pieghe. Ripiegarci su noi stessi, a causa della pandemia, è un arrendersi alla complicazione della situazione. Per rendere semplice una situazione complicata bisogna spiegarla e raccontarla. Così come si spiega una tela, un concetto, o come si spiegano le ali, quando finalmente s’allargano in volo.
psicologa-psicoterapeuta e arte terapeuta clinica. Docente della Scuola di formazione per arte terapeuti de La Cittadella di Assisi. Si occupa di formazione degli adulti dal 1980 nell’ambito: sanitario, sociale, educativo. Giornalista-pubblicista ha pubblicato: Se perdo te. Quando il lavoro manca (in collaborazione con Giovanni Grossi, Pliniana, 2013), E corrono ancora. Storie italiane di donne selvagge (Frassinelli, 2014), Eroine ed eroi in corso (Carthusia, 2021). Che forza! (con le illustrazioni di Bimba Landmann, Carthusia, 2021),
I come inquietudine (Cittadella Editrice, 2021). In uscita: La nostalgia dei sogni (in collaborazione con Alberto Terzi). Lavora a Perugia, Milano e Roma.
Tessere Incontri
Collabora con l’associazione Tessere Incontri di Milano, presso la quale tiene incontri di arte terapia tessile.
Le prossime date del 2022 saranno: sabato 2 aprile, sabato 30 aprile e sabato 28 maggio. Il titolo dei tre incontri è:
Il libro
Scritto da Tiziana Luciani
Illustrato da Bimba Landmann
Realizzato con Cooperativa Accaparlante – Centro Documentazione Handicap (CDH)
Tre incontri col-legati da un medesimo intento: non smarrire il filo ovvero il senso di quello che pensiamo, immaginiamo, raccontiamo. Ma, piuttosto, fare in modo che quel filo tenga insieme saldamente noi e il nostro mondo interiore. Perché è da quella tenuta, che a volte può essere provvisoria come una imbastitura, che deriva la nostra serenità.
Per informazioni: Tessere Incontri. Via Filippino Lippi 26 – 20131 Milano
Iniziamo il nuovo anno con un tema che ci sta particolarmente a cuore: la capacità di cura. Una dote insita nella natura femminile penalizzata da un modello sociale che premia la competizione e la forza. Accogliamo quindi con riconoscenza il Contributo dell’amica Valeria Cantoni, filosofa e scrittrice, che ha da poco pubblicato il libro “Leadership di cura”, fornendoci una chiave di lettura che può interessare ciascuna di noi.
Il periodo che stiamo attraversando ci rende bisognosi di cura
Siamo in una crisi economica ma soprattutto in una crisi di cura. E siamo vulnerabili, tutti, senza eccezione, poveri e ricchi, potenti e non. Che il mondo fosse vulnerabile era evidente anche prima ma che lo fossimo tutti noi esseri umani non era così presente nella vita quotidiana delle persone delle società occidentali economicamente avanzate. Prima che arrivasse il Covid. Così la cura in una manciata di mesi si è trasformata da Cenerentola delle attitudini sociali a regina richiesta, ambita e pretesa. Ma è una novità dell’ultima ora. Fino a oggi la cura non interessava quasi a nessuno. Notoriamente badanti, insegnanti, casalinghe, colf, infermiere, perlopiù donne, sono tra le professioni meno pagate e meno riconosciute sul piano sociale.
La cura è una prerogativa femminile?
Forse perché la cura è sempre stata prerogativa delle donne? E le donne sono state etichettate come “sesso debole” dalla società civilizzata sviluppata culturalmente sul mito della forza, sull’autonomia dell’individuo e sulla competizione come condizione necessaria per il progresso e il successo. Storicamente ha prevalso la logica della guerra, del timore verso l’autorità, della colpa del corpo, logica che ha governato in una società economicamente, culturalmente ed emotivamente dominata dal patriarcato. I sentimenti come tristezza, melanconia, rabbia, delusione, imbarazzo, senso di impotenza, fragilità sono stati colpevolizzati e ridicolizzati fino a rivoltarsi contro chi abbiamo imparato a considerare più debole o inferiore. Cosi la cura, pratica e capacità attribuita alle donne dalla società degli uomini, è finita negli ultimi posti delle capacità utili alla società del progresso, al lavoro e al successo individuale. Il senso del limite è stato spazzato via dalla cultura del “no limits” dell’”uomo che non deve chiedere mai”, dal mito del workhaolic e dall’idea che per fare carriera bisogna avere “le palle”. Così si è fatto strada, non solo sui campi di battaglia, ma anche sui luoghi di lavoro, lo stile autoritario, aggressivo, competitivo, dominante, facendo identificare gli uomini, fin da bambini, con questi modelli e stereotipi che di fatto sostengono la mancanza di empatia come qualità utile per chi mira a fare carriera. Tutto questo ha veramente svalutato la realtà dei fatti: che siamo intradipendenti, che dipendiamo l’uno dall’altro e dalla natura in un unico sistema connesso e che nessuno può avere l’arroganza di pensare di non avere bisogno della cura altrui. Con la pandemia è accaduto qualcosa di straordinario: i leader hanno iniziato a realizzare di essere vulnerabili e i manager a comprendere che la gentilezza e la cura sono importanti tanto quanto la fiducia e la motivazione.
Costruire una nuova cultura della cura
Da qui urge costruire tutti insieme una nuova cultura di cura, necessaria a riparare le ferite di una comunità scossa e frammentata come la nostra. Nelle organizzazioni, in questi due anni, le persone più empatiche e che si sono prese cura dei colleghi e delle colleghe, hanno fatto la differenza, sono stati i nuovi eroi. I loro superpoteri sono la dolcezza, l’ascolto, la pazienza, il rispetto dei tempi altrui. Queste persone hanno saputo tenere insieme i gruppi sfilacciati dal lavoro remoto forzato, perché hanno speso tempo ad ascoltare le storie altrui con tutto il portato emotivo che le accompagnava. Una parola gentile, una mail inviata pensando prima all’orario in cui la si manda, l’attenzione alle parole, uno zoom che inizia con “come stai?”, tutto questo può divenire cultura e abitudine appresa o ricadere nuovamente nei comportamenti adottati solo in emergenza. Ma è cura anche la capacità di fidarsi e affidarsi agli altri responsabilizzandoli. Sta a ognuno di noi prendersi la responsabilità delle proprie azioni, gesti e parole, sapendo che quello che facciamo o non facciamo, che diciamo o non diciamo, ha un impatto sugli altri, sulle loro energia e sulle loro emozioni e motivazioni. Questa attenzione e consapevolezza non hanno sesso, non sono capacità da attribuire al generare, ma sono qualità umane che ogni leader dovrebbe imparare a fare proprie per traghettare un paese, una città, una comunità o anche solo un piccolo gruppo in un domani sostenibile per tutti.
è consulente filosofa, formatrice manageriale e autrice. Ha dato vita a Leading by Heart, progetto formativo che accompagna i manager a sviluppare uno stile di leadership inclusiva ed empatica. È presidente di ArtsFor, società di consulenza culturale e di sviluppo organizzato. È docente del corso Arte e Impresa all’Università Cattolica di Milano. Dal 2016 è membro del comitato artistico di Triennale Milano Teatro. Nel 2021 ha pubblicato il libro Lingua, estetica della soglia (Fefé editore) e il saggio “Learning by heart: al di là del principio di volontà” nel volume Volontà. Esempi per fare, non fare, resistere e ottenere (ed. Fabbrica dei segni). Leadership di cura è il suo ultimo libro.
IL LIBRO
Titolo: “Leadership di cura” dal controllo alle relazioni
Un viaggio in Sicilia a Capo d’Orlando, la scoperta di una Villa, villa Piccolo, e dell’omonima fondazione hanno persuaso Stefania Aphel Barzini ad affrontare la stesura di: “Le Gattoparde”, il tramonto di un’epoca in un a grande saga siciliana.
La scoperta di Villa Piccolo
Nel corso di un viaggio in Sicilia sono casualmente capitata a Villa Piccolo, la straordinaria casa-museo dell’aristocratica famiglia Piccolo, arroccata in cima alle colline di Capo d’Orlando, immersa in uno splendido parco di oltre venti ettari. Oggi è sede della Fondazione Piccolo ed è il luogo dove la baronessa Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò si ritirò con i suoi tre figli che lì vissero fino alla morte, quando il marito Giuseppe Piccolo di Calanovella fuggì a Sanremo con una ballerina.
Una famiglia molto particolare
Teresa fu una donna toccata dalle tragedie, non solo l’abbandono da parte del marito a cui lei rispose con coraggio e dignità inusuali per la maggior parte delle donne di quel periodo, ritirandosi a vivere in solitudine a Capo d’Orlando con i suoi tre figli, ma anche dalla morte violenta di tre delle sue sorelle. Quando Donna Teresa si ritirò a Villa Piccolo insieme ai suoi figli, nacque un irripetibile cenacolo di cultura, d’avanguardia e di bizzarria: Agata, la sola femmina, abile cuoca e appassionata botanica, dedicò tutta la sua esistenza al giardino senza uscirne se non raramente, (lei stessa affermava di non aver mai attraversato lo stretto, di essere stata solo a Messina e a Palermo, i fratelli quando andavano in città se la portavano appresso, insieme ad un corredo di pentole, perché i due non mangiavano mai al ristorante e amavano solo la sua cucina), Lucio, il poeta, scoperto da Montale e Casimiro, l’eccentrico esoterico, pittore e fotografo, che dormiva di giorno e viveva di notte, andandosene in giro per il bosco e nel giardino, dove sosteneva di vedere fate e elfi che ha poi ritratto nei suoi meravigliosi acquarelli. La famiglia Piccolo cominciò così a creare il suo universo da piani diversi: uno era quello di tenere viva la storia della famiglia circondandosi di oggetti simbolo di quel passato, residui di quella storia, che componevano una sorta di museo, museo tuttora presente. L’altro la creazione di uno splendido parco di piante rare, una sorta di orto botanico, e infine la passione per la cucina portata avanti dalla Baronessa madre e dalla figlia Agata.
Gattopardi e Gattoparde
La storia dei Gattopardi, gli aristocratici siciliani, è stata spesso raccontata, anche se nella maggior parte dei casi il loro merito sia stato piuttosto quello di sperperare immensi patrimoni assistendo passivamente al loro cupio dissolvi. Molto meno si sa invece delle Gattoparde, che pure hanno cercato con tutte le loro forze di arginare il disastro. E a Villa Piccolo ho scoperto presenze e fantasmi inquietanti che mi hanno spinta a dare loro voce, a riportarli in vita. Partendo da donna Teresa, presenza evanescente che anche dopo la morte continuava a essere presente tanto che la tavola era regolarmente apparecchiata (e lo è tutt’ora) e i tanti cani morti, che a detta di Casimiro, apparivano e sparivano con frequenza inquietante. Volevo raccontare anche le tante figure che si sono intrecciate alla vita di questa eccentrica famiglia, le tre sfortunate sorelle Filangeri Tasca di Cutò, il fratello Alessandro, unico erede maschio, soprannominato “Il Pricipe Rosso” per via delle sue simpatie socialiste che ha dissolto il patrimonio di famiglia nelle sue avventure, la madre Giovannina, morta giovane che influenzò in maniera determinante le esistenze dei suoi figli, e poi Beatrice, la sola sorella, con Teresa sopravvissuta alle tragedie famigliari, madre di Giuseppe Tomasi di Lampedusa a cui era legata da un affetto geloso ed esclusivo, passando per Franca Florio, la regina dei salotti palermitani e dalla regina Elena, amiche del cuore di Giulia, la sorella finita tragicamente e che della regina fu la dama preferita. La storia si stende come un film avvincente tra tragedie, lusso sfrenato, palazzi principeschi e personaggi eccentrici creando un affresco indimenticabile di un’epoca ormai scomparsa. Raccontare questa storia ha voluto dire per me ridare voce a donne che per tutta la vita hanno cercato di esprimersi senza che mai fosse a loro permesso, è stato un po’ come ridare vita e visibilità a fantasmi. E sono sicura che di questo le mie Gattoparde ne siano felici.
Stefania Aphel Barzini ama soprattutto scrivere, mangiare e cucinare. Queste importanti attività l’hanno portata a tenere Corsi di Cucina Regionale Italiana a Los Angeles dove ha vissuto per sei anni, a collaborare con il Gambero Rosso, sia per il canale televisivo, di cui è stata uno degli autori, che per la rivista. Insegna Scrittura Creativa applicata al cibo in vari master di giornalismo enogastronomico e ha all’attivo numerosi libri tra saggistica, culinaria e fiction. Vive e lavora tra Roma, Alicudi e Vetralla con marito, figli, nipoti, cani e gatti.
Rappresenta oltre la metà del corpo. Non fornisce calorie ma gioca un ruolo indispensabile in tutti i processi vitali: presiede agli gli scambi che avvengono nell’organismo, trasporta i principi nutritivi e le sostanze indesiderabili di cui garantisce l’eliminazione, contribuisce a regolare l’equilibrio acido base e regola la concentrazione di tutti i liquidi, dalla saliva al sangue. Insostituibile nel menu quotidiano, in questa stagione, quando se ne perde di più attraverso il sudore, il suo approvvigionamento deve essere costante. Oscillazioni, anche piccole, della concentrazione d’acqua nel corpo causano disidratazione, alterando il nostro equilibrio.
Attenzione a non farla mancare
Una borraccia di acciaio inossidabile assicura un approvvigionamento costante senza pesare sul bilancio gravoso della plastica. Non scordate di averla sempre con voi. Acqua e sport In seguito a sforzi intensi si possono perdere, in poco tempo, anche due litri e1/2 acqua. Se non viene prontamente reintegrata può causare una diminuzione drastica del rendimento fisico, stanchezza, mal di testa, problemi circolatori e altri disturbi. Per prevenire questi problemi è indispensabile consumare abitualmente abbondanti quantità di ortaggi e frutta, specialmente nei pasti che precedono il movimento. Prima e durante l’attività fisica è inoltre consigliabile bere con regolarità. Bambini Il loro corpo è più ricco del nostro di acqua e per questa peculiarità hanno particolarmente bisogno di un rifornimento continuo, soprattutto quando trascorrono molte ore all’aria aperta. Stimolateli a bere spesso, ma evitate di tenere in frigorifero scorte di bevande zuccherate. Forniscono “calorie vuote” e rappresentano uno dei fattori di rischio del soprappeso infantile. Scegliete per loro acqua naturale insaporita con qualche cucchiaio di succo di frutta senza zucchero, infusi poco addolciti, spremute e centrifugati, anche di verdura, o acqua al naturale. Quando sudano molto preferite quella ricca di minerali. Anziani Nella terza età il centro della sete, situato nell’ ipotalamo, può perdere parte della sua capacità di regolazione. Di conseguenza, può diminuire il desiderio di bere. Occorre tuttavia “educarsi” a bere di frequente. Un apporto insufficiente d’acqua rende difficile l’eliminazione delle tossine e può aggravare la stipsi.
Al mattino a digiuno: un bicchiere per favorire la diuresi e combattere la stitichezza.
Durante il pomeriggio: una tazza, sotto forma d’infuso di menta o verbena, vince caldo e stanchezza.
Ai pasti: in piccole quantità, fresca, al naturale, favorisce la sazietà.
A fine pasto: al posto del caffè, infuso di semi di finocchio, anice scorza di limone, per digerire meglio.
Prima, dopo e durante lo sport: spesso, a piccoli sorsi, acqua minerale arricchita con succhi di frutta e verdura senza zucchero eventualmente con un pizzico di sale o una punta di miele.
ATTENZIONE
In caso di alcune malattie di cuore, fegato e reni è sconsigliabile bere molto. Consultatevi con il vostro medico.
L’acqua dell’acquedotto proviene da diverse fonti, spesso di primaria qualità Il suo effetto fisiologico idratante e depurativo è simile a quello dell’acqua in bottiglia. Per garantirne la sicurezza, viene esaminata e quando necessario trattata per avvicinarsi il più possibile a valori stabiliti dalla legge. Oltre all’eventuale presenza di batteri nocivi, gli accertamenti riguardano più di 50 sostanze, prime fra tutte minerali ed eventuali inquinanti chimici. Si intende così assicurare che l’acqua potabile non abbia conseguenze negative per la salute, anche se bevuta in grandi quantità nell’arco di tutta la vita. La depurazione attraverso filtri piuttosto complessi consente, almeno parzialmente, di eliminare eccesso di minerali ed altre sostanze indesiderabili, ma in alcune zone i problemi non mancano. I limiti definiti per diverse sostanze chimiche legate all’inquinamento ambientale, per esempio i fitofarmaci, sono oggetto di continue discussioni fra gli esperti. Sotto accusa è anche il cloro usato per la disinfezione, che oltre ad alterare il gusto è sospettato di favorire, sui lunghi tempi, l’insorgere di malattie degenerative all’apparato digerente. Talvolta, poi, la particolare composizione dell’acqua, pur non essendo nociva, risulta poco gradevole al palato. Le fontane comunali, sempre più diffuse, forniscono acqua proveniente direttamente dall’acquedotto, senza fare lunghi tragitti nelle tubature, che possono rappresentare un rischio aggiuntivo di contaminazione. Ha quindi spesso un contenuto più ridotto di cloro e origina da sorgenti di buona qualità. Di conseguenza è vantaggiosa rispetto all’acqua minerale in bottiglia, che per raggiungerci deve percorrere talvolta molti chilometri comportando l’impiego di ingenti risorse per trasporti e imballaggi. Questi ultimo, anche quando è possibile riciclarli, appesantiscono comunque l’impronta ambientale perché devono essere sottoposti a lavaggio ed eventuale nuova trasformazione. I filtri domestici, se di buona qualità, aiutano a ridurre o eliminare sostanze indesiderabili, migliorano il gusto dell’acqua e prevengono sprechi di risorse. La loro scelta va fatta con molta attenzione, valutando, di caso in caso, costi e benefici. La minerale in bottiglia può essere una alternativa, almeno come bevanda, in alternanza all’acqua del rubinetto, che tranne particolari emergenze si utilizza comunque in ogni giorno per cucinare. Per sceglierla leggete attentamente l’etichetta: le sue proprietà variano in modo considerevole secondo la composizione. Favorite le bottiglie di vetro. La plastica, rischia di rilasciare sostanze indesiderate e anche quella cosiddetta “ecologica” è meno facile da riusare.
Acqua: risparmiare è d’obbligo
Sempre meno acqua disponibile Se i 1,4 miliardi di metri cubi d’acqua presenti sulla terra fossero tutti potabili non ci sarebbero problemi. Ma il 97,5 % di questo gigantesco quantitativo è acqua marina, inutilizzabile, a meno di non ricorrere a complicati processi di desalificazione. Del 2,5% d’acqua dolce che resta 2/3 fanno parte dei ghiacciai, e solo 1/3, cioè l’0,8% di tutta l’acqua terrestre, è a nostra disposizione. Un quantitativo che diventa sempre più scarso, nonostante il progressivo aumento delle precipitazioni, che negli ultimi anni sono una delle maggiori cause di catastrofi naturali in tutto il mondo. I motivi sono molteplici. L’innalzamento progressivo della temperatura favorisce un’evaporazione più rapida, mentre i consumi crescono per via dell’aumento della popolazione, che comporta, fra l’altro, una maggiore richiesta d’ acqua per l’industria e l’agricoltura. D’altra parte questi fenomeni producono inquinamento (per esempio quello legato all’abuso di pesticidi) e salificazione (dovuta ad alcune pratiche agricole) dell’acqua potabile riducendone progressivamente la quantità disponibile. La distribuzione dell’acqua sul pianeta non è equa Le risorse idriche del nostro pianeta non sono distribuite equamente, quindi anche i consumi variano molto. Gli americani, per esempio, utilizzano oltre 900 litri d’acqua pro capite il giorno, gli europei 200, gli africani 30, mentre 1000 litri è la quantità d’acqua che consuma mediamente ogni giorno un turista in vacanza nell’area mediterranea. Un vero lusso considerando che almeno un terzo dell’umanità non ha accesso alle fonti idriche e la mancanza cronica d’acqua è una delle cause maggiori di carestie. Senza contare i problemi igienici che ne derivano, responsabili dell’80% delle morti nei primi cinque anni di vita. In alcune aree geografiche toccate dalla siccità, come il Medio Oriente, l’approvvigionamento dell’acqua scatena da anni profondi conflitti. Da noi non siamo ancora a questo punto ma sulla disponibilità d’acqua potabile incombono inquinamento, aridità e gravi carenze strutturali delle reti idriche, soprattutto al sud, dove spesso l’acqua è drasticamente razionata. Ogni goccia è preziosa Meglio risparmiare, e imparare a considerare questo liquido vitale come un patrimonio collettivo allenandosi ad evitare sprechi inutili.