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resistenza

RESILIENZA: UNA VIRTÙ DA COLTIVARE

Posted by carlab on 28 Gennaio 2020 | Leave a response
tempesta

di Fiorenza Zanchi

Resilienza. Termine oggi molto di moda sicuramente non a caso dato che attraversiamo un’epoca così carica di mutamenti continui e veloci che di “resilienza” ne abbiamo sempre più bisogno!

barca nella tempesta

Il termine, come forse già sapete, deriva dal latino “resalio”, (iterativo di “salio”) che connotava, tra l’altro, il gesto di risalire su un’imbarcazione capovolta dalla forza del mare: l’atteggiamento di andare avanti senza arrendersi, nonostante le avversità della vita: difficoltà, cambiamenti, frustrazioni, lavorative o meno, sofferenza, lutti …

Mi piego ma non mi rompo ..

E a rinforzare questo significato, il primo concetto espresso da “resilienza” sembra attribuirsi alla metallurgia ed è ancora più interessante: indica la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate: cambiare forma ma senza rompersi: il contrario della fragilità, ad esempio quella di un bicchiere di vetro che, sotto sforzo, non potendo cambiare forma, si rompe!

bicchiere rotto

E così anche in campo psicologico il termine è venuto a rappresentare la capacità di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà senza “rompersi” appunto: chi è resiliente è all’opposto di chi è facilmente vulnerabile.
Ugualmente il concetto di “resilienza” è applicabile in modo esattamente analogo al nostro corpo.
In entrambi i casi, corpo e psiche, per non “rompersi” si tratta di essere flessibili, duttili, elastici, proprio come il metallo forgiato dal fabbro.

“Le avversità possono essere delle formidabili occasioni”

Thomas Mann

A partire, come scriveva Mann, dal vedere i cambiamenti come una prova, una sfida da trasformare in un’opportunità, piuttosto che una privazione o una minaccia.

klimt tre età della donna

I cambiamenti del corpo legati alle età di transizione della vita femminile, ad es., sono sempre una “prova”: modificano i confini abituali, il modo di pensarsi, di vedere la forma e percepire la struttura del corpo, la sua capacità di rispondere alle richieste, di assecondare i ritmi…implicano periodicamente la necessità di far spazio a una nuova “identità” che si va delineando.
Quelli legati ad epoche come l’adolescenza o la gravidanza in genere, anche se non sempre, sono vissuti con naturale “resilienza”, altri come quelli della menopausa e più in generale, del passare degli anni, sono meno facili da affrontare.

“Mi è venuta la pancia!”

All’approssimarsi dei fatidici 50, è proprio il modificarsi della forma fisica che scatena ansia e tensioni: ”mi è venuta la pancia, non mi riconosco più!”, “Io non sono mai stata così!” “mi sento gonfia, sformata” … in effetti non è affatto semplice né scontato accettare i cambiamenti di questa epoca della vita specie in una cultura che tende ad enfatizzarne gli aspetti di “perdita di un privilegio biologico” piuttosto che le potenzialità evolutive. A partire dalla considerazione che la menopausa è una caratteristica essenzialmente umana, tanto che tra le varie ipotesi, è stato suggerito che abbia avvantaggiato la nostra specie nel corso dell’evoluzione, sollevando la donna dagli stress e dai pericoli della gravidanza e permettendole di aumentare le conoscenze culturali e trasmetterle agli ultimi nati.

Hanno detto...
Hanno detto...

“Avviandosi verso il grande giubileo del numero 50,
la femmina è liberata dalle sue emorragie.
Liberata dalla procreazione ella dovrà, a questa età,
affrontare il suo proprio divenire,
esso stesso creatore.
Esteriormente essa invecchia,
ma interiormente ella incontra la gioia
di mettere al mondo sé stessa.” Annick de Souzenelle

Pensare le trasformazioni di questi anni come la “modificazione di un destino biologico”, quello legato alla riproduzione e dominante nelle altre specie, in favore di una evoluzione culturale, personale e collettiva già aumenta la resilienza.

gravidanza

Come statue di sale?

D’altra parte inseguire modelli di persistente giovinezza, efficienza, produttività, rischia di Irrigidire nello sforzo di mantenere inalterata una forma precedente che preme per modificarsi. Si investe una grande quantità di energia: tempo, soldi, fatica, disagi, ansie, a volte dolore .. per non cambiare forma. Una disposizione fisica e psichica rivolta a un passato percepito a priori come migliore, sfavorevole alla “resilienza”.

moglie di Lot

Viene in mente la biblica moglie di Lot (Genesi 19) che, assalita da nostalgia per ciò che stava lasciando, si trasformò in una statua di di sale per essersi voltata a guardare indietro

L’indeformabilità rende fragili

Come per il bicchiere di vetro, il timore del cambiamento, “l’indeformabilità” rende fragili, vulnerabili: lo stress è l’esatto contrario della resilienza. Accogliere il cambiamento, naturalmente imparando a guidarlo, senza essere passivamente in balia della natura, ma senza forzarla, essere più “resilienti” può essere un vantaggio per la salute del corpo, della mente e del cuore.

Posted in: Corpo e mente, Riflessioni e suggerimenti | Tagged: acqua, barca, cambiamento, Fiorenza Zanchi, forgiato, klimt, lot, metallo, modifiche, onde, resilienza, resistenza, tempesta, thomas mann

Le nostre sorelle afghane, così sole e così coraggiose – Afghanistan: cosa significa Resistenza

Posted by donnetra on 11 Dicembre 2017 | Leave a response

Le nostre sorelle afghane, così sole e così coraggiose

Si intitola ‘Sotto un cielo di stoffa – Avvocate a Kabul’ il volume di Cristiana Cella che racconta la condizione delle donne in Afghanistan dopo 40 anni di guerra e 25 di governo fondamentalista

LEGGI ARTICOLO ORIGINALE

L’Afghanistan, dopo 40 anni di guerra e 25 di governo fondamentalista islamico, è senz’altro il peggior paese per nascere donna.
Le donne afgane vivono una vita inimmaginabile per noi.
Private di ogni diritto, sono costrette a subire una violenza quotidiana, nelle loro famiglie, nella società, nelle istituzioni.
Una violenza che continua a peggiorare nella quasi totale impunità. Ma non sono solo vittime, sono donne forti, capaci di combattere e accudire con eguale determinazione, di vincere la paura e lottare per un destino diverso.
Sono tante le donne, politiche, attiviste dei diritti umani, poliziotte, giornaliste, medici e avvocate che, a rischio continuo della propria vita, non smettono di battersi, ogni giorno, per le altre, per i loro diritti, per la giustizia e la democrazia nel loro Paese.
E proprio della resistenza delle donne parla il libro, “Sotto un cielo di stoffa, Avvocate a Kabul” di Cristiana Cella che sarà presentato sabato 25 novembre 2017 alle ore 17.30 presso la Comunità di base di San Paolo, via Ostiense 152b a Roma.

L’autrice ha una lunga esperienza di Afghanistan e racconta storie di abusi e di coraggio, di donne comuni e giovani avvocate che si battono contro le ingiustizie. Segue alla presentazione un reportage fotografico dei due giovani artisti afghani, Morteza Khalegi e Mohammed Khavari.
A conclusione della serata un piatto della cucina afghana, ad offerta libera, che andrà a beneficio di un progetto di sostegno legale alle donne afghane.
Una pubblicazione a cui l’autrice ha lavorato nel corso di alcuni anni fatti di viaggi, incontri e interviste.
Quello che viene fuori è una raccolta di storie e di voci di donne forti che ci portano dentro la loro vita quotidiana, facendoci partecipare alle loro sfide, al loro coraggio, tenace, generoso e leggero. Racconta, in particolare, la guerra quotidiana delle avvocate. Essere avvocata a Kabul, è un lavoro molto difficile e rischioso, lontano da quello che conosciamo nel nostro mondo.
Il filo conduttore della prima parte, a due voci, è il difficile cammino di un’avvocata che lavora al Centro donne dell’associazione Hawca (sostenuto dal progetto COSPE, Vite preziose) e della sua cliente, tra mille ostacoli, per salvare la sua vita. In questa storia se ne inseriscono tante altre, storie di tragedie e di riscatti, di dolore e di libertà.
La seconda parte del libro racconta l’Afghanistan di oggi, la vita dei suoi abitanti, sempre più fragile e minacciata, la situazione politica disastrosa, la guerra in corso, attraverso interviste, documenti e incontri. Il libro è arricchito da una parte fotografica che documenta il paese, dal 1980 ai giorni nostri, con immagini di Carla Dazzi, Cristiana Cella e Hanna Hardmeier.
Questo un frammento di questo libro intenso e coraggioso pubblicato dalla Città del Sole, una piccola casa editrice calabrese: “Il sole non è ancora sorto a Kabul e Shirin si prepara ad affrontare un altro giorno di battaglie, come ogni altra donna in Afghanistan, ma per lei è diverso.
Ha scelto di lottare, non solo per se stessa, ma soprattutto per le altre, per proteggere con ogni mezzo i loro diritti e le loro vite. È una mattina come tante per Shirin, avvocata presso il Centro Legale di Hawca, e tra poco la sua vita incrocerà quella di una delle tante donne costrette a combattere la propria battaglia segreta, Roshan. Anche per Roshan comincia un altro giorno, di resistenza, nella sua casa, contro quel marito carceriere.
Forse, però, questa è una giornata speciale, unica. Un rumore attira la sua attenzione, il vento fa sbattere la finestra della cucina che qualcuno ha dimenticato di chiudere; una finestra che può cambiare tutto, un piccolo spiraglio di speranza”….

Afghanistan: cosa significa Resistenza

Stefano Galieni

LEGGI ARTICOLO ORIGINALE

Cristiana Cella è una giornalista che segue le vicende dell’Afghanistan dal 1980. Dal 2009 è esponente del CISDA (Coordinamento Italiano di Solidarietà con le Donne Afghane) e si è spesso avventurata in quel grande e straordinario paese. In un libro intenso, doloroso ma carico di vita “Sotto un cielo di stoffa”, pubblicato a maggio del 2017 da La Città del Sole (pp.296, 13 Euro) e corredato dalle foto della collega Carla Dazzi, ha fatto arrivare anche in Italia un vero e proprio messaggio di lotta partigiana. Storie delle avvocate di HAWCA ( Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan), delle donne assistite, di chi si ribella al patriarcato fondamentalista, di chi subisce, di chi è complice e carnefice e di chi cerca di costruire un futuro diverso.
Storie cariche di buio ma in cui si intravvede perennemente la luce, una luce più forte e più potente di ogni brutalità. Proviamo intanto a riportarne una, quella che apre questo prezioso volume:

Kabul – Quartiere di Shirpoor, ore 6,30

ROSHAN

Ecco, la porta si chiude con un colpo cattivo. Le voci nel cortile. Mursal chiama «mamma». No, mamma non viene al matrimonio, mamma non viaggia, non ha diritto alla festa. Punizione. Mamma non è una brava moglie da mostrare in famiglia. O forse è la mia faccia che non è bella da portare in giro. La cicatrice sulla guancia, quella crosta sul labbro che non vuole guarire… quei braccialetti neri sui polsi, le sue maledette corde, no, non sono gioielli di famiglia.

Se ne sono andati. Tutti. Anche i suoi uomini, grazie a Dio. Hanno sprangato la casa. Il silenzio, nuovo, si posa nella stanza. Intonso. Sol- tanto mio. La solitudine, il riposo. Punizione? No, forse no. Devo pulire tutto e preparare la cena, ma l’ostilità della casa perde forza, sembra che ci sia più spazio. Posso respirare fino a stasera, quando tutto ricomincerà.

Ecco, posso sedermi sul tushak, vicino alla finestra, il posto di mio marito, perla prima volta. Si sta bene. Chiudere gli occhi e fingere che non ci sia più niente. Uscire da questa vita, come da un vestito. Mi sento leggera, il mio triste corpo non pesa più. Là fuori, c’è gente che deve sentirsi così. Se non ci fossero le bambine con loro, potrei pregare. Pregare, che saltino tutti su una mina, bella grossa. Un botto e basta. Tutto finito. Ma ci sono le bambine in quella macchina. Sono tutto quello che ho. Tutto quello che sa di amore. Altro non c’è.

Cos’è, adesso? Ho perso il silenzio. Un rumore ritmico, regolare, insistente. Ah, sì, la finestra della cucina sbatte. Se la sono dimenticata. Carcerieri distratti. È aperta, bassa, si può scavalcare. Inaspettata. Un pensiero prepotente, che non posso allontanare, mi spinge. Mi alzo. Eccola. Quella finestra può cambiare tutto. La mia vita, dove non vive niente. Continua a sbattere, mi chiama.
È una giornata speciale, l’unica forse. La paura fa male allo stomaco ma passerà, deve passare. E se non passa? Forse è meglio aspettare… magari un’altra volta. No, non ce ne saranno altre di volte.
Questa giornata è un dono di Allah. Devo esserne degna. Il burka è lì, appeso al chiodo. I vicini sono al lavoro.
So, dove devo andare. Il biglietto che mi ha dato Habeba l’ho bruciato, l’indirizzo lo so a memoria. Conosco il posto. Ce la devo fare. Per me e per le piccole. Ecco, la finestra si spalanca, il vento entra ed esce… entra ed esce.

….Le storie di Shirin, l’avvocata che è al centro di queste vicende e di Soraya, giovane tirocinante che con lei lavora rischiando ogni giorno la vita, di Faramarz, loro autista e guardia del corpo, si snodano in continui incontri con donne che non possono essere definite “clienti” ma diventano rapidamente sorelle, con una schiera di uomini crudeli, meschini e corrotti, ma anche con un universo maschile che si schiera con coraggio contro il potere jahedista e talebano.
I nemici sono ovunque: lo sono i signori della guerra e dell’oppio come tanti uomini protetti dalla divisa e da un governo emanazione dell’occupazione occidentale, lo sono le milizie in cui è frammentato il paese, perennemente al servizio di qualcuno, lo sono gli ordigni disseminati lungo le strade, gli attentatori suicidi come i bombardieri occidentali che dall’alto decidono chi deve decidere e chi deve morire. Ma resta, leggendo queste pagine, la sensazione che il finale non sia scontato e che quella a cui ci si appiglia non è solo una velleitaria speranza.
Crescono consapevolezza e coscienza di se, crescono generazioni che – anche grazie alla lotta contro l’analfabetismo, imposto soprattutto alle donne – acquisiscono il desiderio di cambiare il proprio paese e di vederlo crescere in pace. Resta il sapore quasi sotterraneo di chi riesce a ridere, a gioire, a innamorarsi, a rialzare la schiena spezzata da ingiurie e sofferenze e a riprendere in mano la propria vita.
La forza è soprattutto femminile ma fanno riflettere gli uomini che non abdicano al proprio ruolo di giudici, di mullah, di agenti di polizia e decidono di provare ad applicare, nonostante i padroni, una giustizia che va ben oltre le convenzioni e le tradizioni artefatte. Donne e uomini che irrompono, spesso silenziosamente, ma in maniera contagiosa con la propria voglia di libertà e di pace, per cui parole come rispetto, amore, eguaglianza, hanno un valore realmente rivoluzionario.
Vanno fatte leggere queste storie ai tanti europei che, chiusi col proprio bagaglio culturale di colonialismo innato, non riescono neanche ad immaginare tanta forza e tanta capacità di ribaltare le condizioni date.
Dai tempi dell’invasione sovietica, delle guerre infinite contro gli occupanti e contro i nascenti gruppi fondamentalisti finanziati dagli USA per scellerati giochi geopolitici, sono sopravvissute generazioni di uomini e donne consapevoli che hanno altre volontà e altre esigenze rispetto ai desiderata occidentali.
In molte e molti sono costretti a fuggire, per non dover combattere, per non dover pagare con la vita le scelte politiche proprie o fatte da un parente, per non dover sopravvivere in miseria, per il diritto all’acqua, alla salute, ad una nutrizione decente. A coloro che sono fuggiti ( dopo quella siriana si tratta della seconda emergenza umanitaria per il numero di persone coinvolte) l’Europa per alcuni anni ha garantito asilo.
Ora il clima è cambiato e, nonostante si continui a morire in continuazione per attentati, combattimenti e violenze di ogni tipo, l’Afghanistan è considerato per molti paesi europei un “paese sicuro” al punto da poter rimpatriare coloro che in Europa hanno chiesto asilo e protezione.
Con la situazione kafkiana per cui da una parte aumentano i contingenti militari, le risorse utilizzate per le “missioni di pace” (bombardamenti ed armi) che si inviano in un paese in gran parte controllato dalle milizie islamiste di vario tipo e contemporaneamente si rimanda indietro coloro che da questa strage continua vogliono tentare di fuggire.
Si danno risorse ad un governo fantoccio, corrotto e in combutta con i trafficanti d’oppio e non si prova neanche a pensare che se c’è un futuro per l’Afghanistan questo è rappresentato unicamente dalle tante piccole forze che cercano di salvare le persone, di far vincere il diritto, di praticare invece che dichiarare al vento, forme di democrazia reale.
Questo libro racconta storie reali ma è anche, a suo modo un libro di Storia, quella storia nascosta e negata di chi per ora non ha vinto ma è narrato solo e soltanto ad uso e consumo delle potenze dominanti. C’è da augurarsi che venga presto il giorno – e dipende anche da noi, dalle decisioni che prendiamo con i nostri governanti – in cui si potrà raccontare un’altra verità in cui arriverà un 25 aprile da festeggiare e in cui si possa vivere senza dover avere costantemente paura per il solo fatto che non si accetta il ruolo di persone subalterne. In quel giorno, Cristiana, le compagne del CISDA e chi le appoggia, i tanti e le tante ( ma debbono aumentare) che sostengono il loro lavoro, potranno parlare a testa alta e non dovranno vergognarsi, col proprio voto o col proprio silenzio, di aver contribuito per anni alla banalità del male.

Posted in: Storie di vita | Tagged: coraggio, Cristiana Cella, donne, donne afghane, resistenza, valore

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